3ème Millénaire n. 69 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini
Noi ci sbagliamo sulla natura della nostra mente. Le attribuiamo costantemente una pseudorealtà. Consideriamo, il che è assolutamente irreale, che all’interno della nostra mente tutto accade, come sulla terra, in un modo percettivo. E abbiamo sempre l’impressione che la nostra mente o il nostro me, compreso il nostro essere più intimo, funzioni come il nostro essere terrestre: che è fatto per relazionarsi con esseri e cose. E’ assolutamente falso!
Il nostro essere più interiore non è fatto per relazionarsi con esseri, cose e avvenimenti, è concepito per relazionarsi, attraverso dei segni, con del senso. In altri termini, il nostro essere intimo non percepisce, legge. E ci sbagliamo se crediamo che il nostro me sia fatto per vedere, o percepire esseri e cose, mentre non ha mai avuto come sola relazione che il senso, attraverso la mediazione dei segni.
Il nostro essere interiore è, infatti, eternamente in posizione di lettura. E la vita interiore abituale non è che la degradazione di questa caratteristica della nostra mente. Dal momento in cui abbiamo l’intuizione, (che dovrebbe mostrarci che ci relazioniamo con del senso con l’intermediazione dei segni), comprendiamo molto bene che l’atto fondamentale della mente è un atto di lettura.
I nostri sentimenti e le nostre emozioni sono delle specie di oggetti che ci fanno paura, come sulla terra bestie feroci potrebbero significare che siamo vulnerabili. Fisicamente siamo vulnerabili, si; ma interiormente, forse qualcosa può attentare alla mia integrità? No, mai segno e senso hanno potuto esercitare un effetto negativo su di un’anima! L’innocuità del segno e del senso è assoluta e perciò, se cambiassimo l’ottica che abbiamo sul nostro funzionamento interiore, comprenderemmo, in un lampo folgorante e straordinariamente rassicurante, che, nel mondo del segno e del senso, non possiamo essere feriti o attaccati. Ed esiste una pace squisita dovuta alla relazione propria della nostra mente.
Quella caratteristica della mente vera, che si relaziona unicamente con segno e senso, e mai con cose, esseri o avvenimenti, non è evidente, se consideriamo solo la superficie della mente. Questo appare quando ci inoltriamo nell’interiorità profonda, vicino alla sorgente, dove questo diventa molto chiaro.
Dopo questa prima approssimazione, possiamo ora osservare un fenomeno spirituale che generalmente è del tutto ignorato, anche se ha qualche spunto in Sartre, che è quello che ho trovato senza avere veramente cercato.
Per questo, sono obbligato a fare qui un po’ di pittura metafisica. C’è “io sono cosciente”: è l’assunto assoluto. E poi “io sono cosciente” genera un fenomeno esterno che è “io penso”, considerato come un principio. E “io penso” genera la creazione o la sorgente delle cose, che è l’invenzione e la creazione dell’Eden.
Fermiamoci qui un momento, e poniamoci la domanda molto strana: come “ io penso”? Come il nostro pensiero, alla sorgente, comunica a se stesso il proprio contenuto? O ancora, come il soggetto pensante comunica a se stesso la sua propria esistenza?
“Se ci fondiamo sulla nostra intuizione, non ci sbagliamo mai, ma questo richiede molto coraggio, perché le argomentazioni della nostra ragione sono impressionanti.”
Per una buona descrizione, c’è una risposta a questa domanda che, a mio parere, è di una straordinaria importanza, per la buona ragione che ha una incidenza pratica.
Come penso che comunichi con se stesso, trattandosi tanto del pensiero che dell’esistenza di Io o del soggetto? Ebbene, straordinariamente, quella comunicazione non è diretta, ma indiretta, e passa per una simbolizzazione. E’ un fenomeno di un’importanza inaudita, perché il fenomeno di simbolizzazione si va degradando e mostra il nostro decadimento spirituale. Ma, come succede concretamente? Perché sicuramente è un fenomeno reale e concreto, pur essendo situato nelle profondità del nostro spirito.
Infatti, molto stranamente, a monte di me stesso, il pensiero che produco accede al suo contenuto attraverso il simbolo. Si potrebbe pensare che, in un primo tempo, esso comunichi direttamente il suo contenuto, ma sembrerebbe che, perché questa conoscenza sia perfetta, sia obbligata a reiterarsi e dunque a produrre essa stessa un simbolo; cioè ad autosimbolizzarsi per darsi legittimamente un contenuto. Ma ora la questione si pone concretamente: di quale simbolo si tratta? Ebbene, si tratta di un dispositivo simbolico, che sorge direttamente dall’interiorità, costituito da una immaginazione mentale profonda totalmente non cosciente, nello stato di vigilanza, ma sempre lì e che conosciamo come le nostre tasche, tranne che questo non ha mai incrociato i nostri pensieri, non è mai stato nominato o battezzato, tanto che sfugge alla nostra coscienza di uomini.
E’ dunque un linguaggio, ma anteriore al linguaggio umano. E’ in ogni caso per quella immaginazione simbolica che il soggetto che noi siamo comunica a se stesso la sua esistenza. Infatti quel modo di funzionamento è caratteristico dello stato d’innocenza. E’ un modo d’essere che funziona molto bene, sebbene leggermente macchiato d’imperfezione, che ha per principio che l’accesso all’essere non può farsi che con la mediazione dei simboli, attraverso una sorta di lettura esistenziale.
Quel modo d’essere, lo ripeto, che non è perfetto, vuole che la vita valga la pena di essere vissuta. È lui che assicura all’infanzia quella meraviglia e quel fascino che può avere per gli adulti. Fa in modo che il nostro pensiero attinga il suo contenuto per via simbolica e che il me che siamo sia a contatto della propria esistenza ed esista autenticamente, sempre per via simbolica.
Quella immaginazione mentale primordiale, sempre all’opera al fondo di noi, è perfettamente reperibile, ma la difficoltà di reperire quella immaginazione, è che essa è non figurativa e che abbiamo difficoltà a riconoscere una immagine mentale, quando non è più figurativa. Essa non ha bisogno d’essere precisa, né di rappresentare qualcosa, perché si tratta di una scrittura che ha la sola funzione di essere letta.
Poi, quando la meccanica di autosimbolizzazione si sarà pervertita e sarà stata mal affrontata, si metterà in atto un dispositivo di tipo percettivo. In questa situazione che tutti conosciamo, quando la mente è fatta per leggere o relazionarsi con segno e senso, tutt’a un tratto si relaziona con esseri e cose. Così, non c’è nessuna differenza di natura o di struttura tra questa lettura e quella di un giornale o di una bandiera.
Immaginiamo che la bandiera tedesca sia lì davanti a me; si tratta di un simbolo, ma, per una mancanza, non la vedo più come simbolo. E non resta più di quell’oggetto che la sua materialità, la tessitura del tessuto, come richiede la lettura.
Che succede in quel momento? Ho identificato mostruosamente le vaste aperture germaniche al tessuto della bandiera, alla sua trama. Non possiamo concepire follia più grande che quell’assassinio del senso: il senso che significa la bandiera è scomparso nella materialità del segno.
Altro esempio; scrivo Dio su un pezzo di carta, che è un senso abbastanza nobile! Ma, a un tratto, divento pazzo e identifico il senso con i segni neri scritti sulla carta, tanto da non avere altro che segni fino a che continua nel segno per ridursi del tutto. Assistiamo lì a un duplice assassinio: quello del senso e quello del segno. Non possiamo immaginare una distruzione interna più spaventosa di quella. Per me, è la prima espressione del deragliamento originale, al termine del quale ogni elemento, ogni campo di coscienza è avvilito, degradato, massacrato, con tutto ciò che implica quella identificazione. Decadimento, degradazione, separazione…
In questo preciso momento, questa immagine mentale non è più trattata come un simbolo, è desimbolizzata, fino a che non ho che la macchia. Quando il simbolo si distrugge e, invece di relazionarmi con lui, non ho relazione che con degli elementi del simbolo – con le macchie - non c’è più simbolo…
Nello stesso modo “io sono” è ridotto, in maniera immonda e atroce, alla macchia… E ecco l’anima umana ridotta a una piccola pustola che è tutto ciò che resta del simbolo “me”!
Penso che quell’avvenimento sia la prima descrizione che si può fare della perdita del sé, della rottura con Dio. Essere esiliati da Dio, è cessare di leggere quella frase originaria e non avere che la macchia, nell’istante dove “io sono” è interamente ridotto alla macchia; non possiamo immaginare peggiore destino!
Quando eravamo bambini e le cose andavano bene, Dio doveva ancora nascere, ma “Egli era già”, anche in forma imperfetta. Noi passavamo la nostra vita a fremere e la vita era là, gloriosa e nel fondo, eravamo vivi e vibravamo tutto il tempo. Poi si è prodotto quel terribile accidente e il nostro simbolo è stato ucciso; non abbiamo trattenuto che il supporto sensibile del simbolo, ci siamo perduti. Il senso miracoloso “me”, che è la stessa cosa di questa esistenza assoluta, si è perduto e la nostra anima, il nostro principio spirituale, si è trovato ridotto alla macchia; è stata oscurata dall’ex- simbolo. Dio è stato oscurato dalle zampe di mosca informi che sono i caratteri di stampa.
Non credo di poter dire qualcosa di importante come questo. Di sicuro non sto facendo il ritratto del bene, ma sto cercando di fugare le spire del male. Tocco l’abbicì centrale da cui comincia il nostro decadere: una disfunzione della funzione simbolica. Se il male è molto grave e molto difficile da evidenziare, ha almeno questa qualità, di esprimersi semplicemente!
D: Questa simbolizzazione è ancora necessaria nel risveglio?
S.J. E’ una questione fondamentale, ma, prima di affrontarla, parliamo dello scadere di quel fenomeno, di quell’istante terrificante, dove il meraviglioso di quel fenomeno di auto simbolizzazione si distrugge e la lettura non avviene più. Su questo punto, possiamo descrivere precisamente ciò che avviene dentro una mente.
Un simbolo è come una finestra aperta sul significato o il senso. I materiali che costituiscono la finestra sono elementi di tipo sensibile, che siano reali o immaginari. C’è dunque il supporto materiale del simbolo e il simbolo propriamente detto. Se scrivo “Dio” su un grande foglio di carta, o “me”, ma diciamo Dio, è più modesto, c’è il simbolo, la parola, e l’inchiostro, le macchie nere e la carta. Guardando la carta, sembra naturale vedere la parola "Dio", ma, di fatto, ciò che vediamo, sono segni neri su una carta.
Nel momento stesso in cui il simbolo è desimbolizzato, e non resta che l’immagine bruta e materiale, continua a farsi la lettura e il significato è immediatamente identificato e ridotto al supporto del simbolo.
Così nel nostro esempio, il senso “Dio” si perde nella carta, cade nelle piccole macchie e agonizza. E’ qui la distruzione del senso attraverso la riduzione al supporto materiale del simbolo.
Il simbolo “me”, che è certamente nascosto e puramente implicito, può essere di natura visiva o uditiva, e non cambia niente di fatto; poichè divento allora quella specie di rumore di cicala, che era una porta per la quale accedevo a me stesso, al mio vero essere. Divento quel rumore o quell’evocare il rumore e mi riduco a quel rumore. Tutto il senso “me”, tutto il senso “io sono”, tutto il senso “Dio”, tutto il valore presente nell’universo, si riduce a un mucchietto di elementi sensibili e risibili. Io sono quella macchia, sono quel piccolo ricordo furtivo di un disco grigiastro. E se non si trattasse che di una malattia, non sarebbe grave; non solo sono in una prigione, ma in più sono snaturato. Questa malattia corrisponde a uno snaturarsi della mente pura, dell’essere e della “meità”.
Quella scomparsa è sicuramente come quella della mente nella materia. Il fenomeno di riduzione della mente alla materia è d’altronde una tentazione. E l’intuizione della natura puramente spirituale della mente è straordinariamente rara, anche se l’abbiamo tutti perché non è morta in noi. Ma si può appena parlarne come di un testimone, perché essa non è quasi più lì. Infatti la materializzazione della mente è un crimine, è la morte dell’immagine- simbolo “me”. E’ la morte di quel segno e di quel senso supremi.
Uno dei grandi sentieri verso il risveglio è l’esumazione di quella tomba spirituale. E l’atto disidentificatore consiste nel proiettare la luce della coscienza. Me su quell’immagine e, con quel semplice atto, emergere dall’immagine.
Intuitivamente, possiamo concepire che esista un pensiero primario, che sarebbe la madre di tutti i pensieri, e che ci resta da prenderne coscienza per divenire ciò che siamo. A cosa si è ridotta la mia anima e in cosa si snatura in modo spaventoso? Possiamo dire che è un pensiero dogmatico inaudito, così come un’immagine; ci sono due versanti. E accediamo alla radice del male dai due versanti simultaneamente.
D. Ma in un istante di presenza, non ho immagine!
S.J. Ma forse un’assenza d’immagine è ancora un’immagine; il fenomeno è molto sottile! La caratteristica di quel pensiero primario, di cui dobbiamo prendere coscienza, è come un pensiero, ma non assomiglia a un pensiero. Arriva a ingannarci travestendosi. Infatti, se usiamo i criteri di riconoscimento abituali che definiscono un pensiero, non possiamo arrivare al riconoscimento di quel pensiero primario. Altri criteri divengono indispensabili, perché si è travestito; è un essere molto maligno, molto vizioso, che si è travestito per imbrogliarci.
Così, quell’immagine mentale “me” non assomiglia più all’idea delle immagini mentali che abbiamo abitualmente; però è un’immagine mentale molto profonda, primaria, primordiale e non cosciente.
Ma quell’immaginazione mentale non cosciente non è un fenomeno perverso in sé. Diventa perverso perché ha due versanti: quello che è e quello che noi ne facciamo. E’ anche dannoso indurre che il fenomeno di significazione è perverso, perché, a partire da lì vivo la distruzione del senso.
D….Bisogna dunque comprendere l’importanza di distinguere il reale dall’irreale…
S.J. Si, ma chi ti indica che il reale al quale ti rivolgi è legittimo o no, che si tratta di un reale autentico o di uno pseudoreale, non è in nessun modo la tua ragione o il tuo ragionamento, è solo la tua intuizione. Non possiamo basarci sulla ragione per stabilire quella discriminazione e separare il buon grano dal loglio. Se ci fondiamo sulla nostra intuizione, non ci sbagliamo mai, ma ciò richiede molto coraggio, perché le chiacchiere della nostra ragione sono impressionanti. Occorre molto coraggio per disfarsi della bestia!
D…..Se il nostro pensiero o la nostra ragione non è lo strumento del risveglio, come individuare meglio lo strumento di coscienza di sé?
S.J. Non c’è che uno strumento di auto- conoscenza, ed è l’atto di coscienza, e poi c’è un altro strumento che è di una grande nobiltà: è il pensiero intelligente, discorsivo e speculativo. Ma dobbiamo per forza constatare che non è lo strumento di autoconoscenza. E si potrà speculare un miliardo di anni, con una finezza vicina alla perfezione, senza però avvicinarsi di un millimetro verso la cosa ultima. L’atto da compiere è un atto di coscienza e non un atto di pensiero. Definire la caratteristica propria dell’atto di coscienza è molto difficile, forse impossibile. Diciamo che rinvia il soggetto profondo alla sua propria esistenza e la fa coincidere con se stesso. E’ l’atto della coscienza d’essere, che è semplicemente l’essere.
Ci sono dunque due modi di conoscenza: la conoscenza cosciente e la conoscenza pensante. Quest'ultimo modo non deve sistematicamente essere rimesso in causa, benchè sia suscettibile di avvilirsi in modo folgorante.
D….Si può dire che quella caduta avviene ad ogni istante e non a un momento dato, cosa che per noi è una chance?
Si, la grande chance del nostro decadimento, è la possibilità della redenzione, mentre la caduta è sempre lì. Infatti, il nostro destino spirituale si gioca, ad ogni istante, nella punta del presente puro della nostra mente e perciò la nostra maledizione non ha origine temporale, ma un’origine istantanea e ad ogni istante si vince la partita o si perde. Ma ciò che è favoloso, è che abbiamo in noi il potere di risalire a quella istantaneità per riparare i danni. La redenzione è possibile ma controcorrente a voi stessi, verso la nostra sorgente, fino ad arrivare ai bordi della sorgente, dove sorgono i fenomeni perversi che ho ricordato. La fortuna inaudita è che quella rimonta è possibile; è molto sottile, ma non richiede particolare talento o particolare energia. Richiede molta sensibilità e molta audacia. Non abbiamo nessuna possibilità di fare quella ascesa, se non abbiamo quella qualità primaria che è la temerarietà, l’audacia, per essere capaci di osteggiare tutte le obiezioni che la nostra ragione ci presenta e finirla con tutti i pregiudizi che si manifestano come lupi furiosi al momento di quella ascensione. Ma è sicuramente possibile.